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Le dimensioni della povertà.

Alcune riflessioni sulla statistica ufficiale riguardante la situazione reddituale e lavorativa delle famiglie.

di Barbara G.V. Lattanzi


“Se tre milioni vi sembran pochi” è il titolo di un celebre saggio1 del compianto professor Luciano Gallino uscito nel corso dell’ultimo decennio dello scorso secolo.

Questo numero era riferito alla quantità di persone in età e condizione attiva senza lavoro nell’Italia alla fine degli anni 90. Ora, a distanza di una ventina di anni, quel dato non è migliorato2, ciò che invece appare nettamente diverso, sono il dibattito e gli interventi sul tema della disoccupazione involontaria.


Leggendo il saggio di Gallino si nota come, al pari di molti altri studi, siano dati per scontati l’intreccio e la parziale sovrapposizione di due concetti non necessariamente sempre interrelati: quello di povertà e quello di disoccupazione, essendo nel nostro sistema il lavoro (sia dipendente che autonomo o imprenditoriale) considerato la fonte primaria di reddito e sostentamento per la maggior parte delle persone. Ciò è particolarmente importante se parliamo di disoccupazione involontaria distinguendo le persone in condizioni di disagio occupazionale dagli inattivi o da coloro che, per svariati motivi, non sono pronti a iniziare un’attività retribuita. Il giusto presupposto a questa assimilazione tra povertà e disoccupazione involontaria si pone in questi termini: chi vive un disagio economico è spinto a trovare una soluzione con la ricerca di un reddito da lavoro.


Nelle pagine che seguono, saranno analizzati i concetti di povertà e mancanza di occupazione alla luce delle strategie messe in campo negli ultimi anni per far fronte unitamente alla disoccupazione e alla povertà, dando per scontato una sovrapposizione che appare invece problematica anche alla luce del calo dei salari reali e sottoccupazione (in work poverty) e, dal lato opposto, all’esigenza personale di una realizzazione professionale a cui tutti, non solo coloro che vivono un immediato disagio economico, dovrebbero poter accedere. A questo riguardo sarà esposto il sistema della statistica pubblica, sia di tipo descrittivo derivante dalle rilevazioni e dalle ricerche delle fonti ufficiali nazionali e europee, sia il sistema integrato dei dati delle pubbliche amministrazioni riguardo alle tematiche dell’occupazione e della povertà e le ricadute sulle azioni di governance sull’attività legislativa e sulla vita concreta dei cittadini.


1) L. Gallino, Se tre milioni vi sembran pochi: sui modi per combattere la disoccupazione; Einaudi, 1998

2) Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro 2018 e 2019




1. Gli indicatori della povertà

La prima domanda che sorge, riflettendo sui concetti di povertà e disoccupazione, riguarda i criteri per identificare la dimensione quantitativa dei fenomeni. In altre parole, la definizione di povertà e disoccupazione, concetti non semplici perché non chiaramente circoscritti, tanto da aver generato, nella statistica pubblica fruita dai legislatori, complementi oggetti quali “assoluto” e “relativo” con riferimento alla partecipazione ai consumi secondo un paniere aggiornato in considerazione dei moderni bisogni tecnologici e strumentali e i prezzi al consumo, che possono essere variabili. Nel 2018 il parlamento appena insediato propose una riforma, forte di un dato statistico allarmante: cinque milioni di individui, corrispondenti a quasi due milioni di famiglie, risultavano in povertà assoluta con picchi percentuali per regioni quali Campania, Calabria, Sardegna e Sicilia, i valori più alti della serie storica che prende avvio dal 2005. A testimoniare l’aumento negli anni di questa emergenza anche il dato relativo all’età degli individui e delle famiglie: la povertà è chiaramente più incidente nelle fasce di età più giovanili. La soglia della povertà assoluta veniva individuata dall’Istituto Nazionale di Statistica nell’ammontare 834,66 euro mensili di reddito per chi risiede in un’area metropolitana del Nord, 749,67 euro se vive in un piccolo comune settentrionale, a 563,77 euro per i residenti in un piccolo comune del Mezzogiorno. La povertà relativa al contrario si attestava a un valore di quasi nove milioni di individui3.


L’unità di riferimento è la famiglia e il paniere si rapporta ai bisogni essenziali per la soglia di povertà relativa e a ulteriori disponibilità necessarie per un’integrazione socio-relazionale, culturale e partecipativa4.

La rilevazione Eurostat sulle persone a rischio di povertà ed esclusione sociale (People at risk of poverty or social exclusion5) si basa su tre indicatori:

  • il primo indicatore è il reddito familiare per componente (indicatore di reddito monetario);

  • il secondo indicatore si basa sulla deprivazione materiale (persone che non dispongono di beni o strumenti sufficienti a condurre una vita sana e ad accedere a servizi che consentano un’inclusione sociale e culturale);

  • il terzo riguarda l’intensità di lavoro su base familiare, considerando i componenti attivi e non impegnati in percorsi di studio tra i 18 e i 59 anni che hanno lavorato in media il 20% di quello che avrebbero potuto nell’anno precedente (questa descrizione poco univoca risente della difficoltà di individuare un parametro comune per le varie categorie e fasce di popolazione in paesi con normative differenti riguardo ai contratti e alla durata della giornata lavorativa).

Come si può vedere il lavoro e il disagio occupazionale tornano ad avere un forte peso sul calcolo e sulla definizione della soglia di povertà.


3) Istat, La povertà in Italia 2018

4) Il valore può essere calcolato per qualsiasi famiglia all’indirizzo: https://www.istat.it/it/dati-analisi-eprodotti/contenutiinterattivi/soglia-di-poverta

5) https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-datasets/-/t2020_50&lang=en





2. Gli indicatori del lavoro

La prima e maggiore fonte ufficiale statistica per gli indici sintetici sull’occupazione è la Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro6, indagine campionaria continua condotta da Istat secondo uno standard condiviso dagli altri paesi europei per il confronto transnazionale degli indici. Le definizioni e le direttive operative sono infatti di origine europea7 e adottati da tutti i paesi dell’Unione.


Tale fonte distingue la popolazione attiva occupata o occupabile (forze di lavoro) in occupati e in cerca di occupazione, individuando i primi secondo un criterio che può essere oggetto di discussione. Sono infatti compresi tra gli occupati coloro che hanno svolto anche solo un’ora di lavoro retribuito nella settimana precedente all’intervista.

L’indicatore appare eccessivamente inclusivo e scarsamente discriminante, finendo con il fallire il compito di tracciare una linea di demarcazione tra coloro che cercano un’occupazione e coloro che la hanno già8. La decisione di adottarlo dovrebbe essere compresa all’interno di un trend di decisioni politiche ed economiche quasi egemonico9 una ventina di anni fa che, invece di analizzare l’emergere della gig-economy10 e un’economia in parte sommersa con occhio critico e riflettendo sulle conseguenze sociali e economiche, ne sanciva l’ineluttabilità con l’introduzione di criteri di analisi non in linea con le reali condizioni occupazionali degli intervistati né con i dati in possesso degli istituti di previdenza. Una recente analisi mostra come la mancata riflessione su ciò che significhi realmente possedere un’occupazione e la confusione tra occupati, sottoccupati e precari abbia contribuito all’emergere e alla continua crescita del dato allarmante dei working poor nel dibattito scientifico e politico degli ultimi anni11.


La II Commissione Istruttoria per le Politiche Sociali e Sviluppo Sostenibile, nel documento Osservazioni e Proposte sul tema "Povertà, disuguaglianze e inclusione" del 201812 evidenziava un aumento della povertà sia relativa che assoluta unitamente a un aumento delle disuguaglianze, con forti squilibri nella distribuzione dei redditi, differenze territoriali persistenti malgrado, a seguito della crisi iniziata dieci anni fa, sacche di povertà siano comparse anche in zone precedentemente poco a rischio come il centro nord.

Lo stesso documento, nell’analizzare i dati forniti da ISTAT, distingue una forte penalizzazione delle fasce giovanili della popolazione, delle famiglie numerose specialmente in presenza di membri in età attiva con bassa scolarizzazione. Tra i fattori indubbiamente incisivi nel determinare situazioni di fragilità economica, un ruolo importante è attribuito alla bassa intensità lavorativa familiare, costituita dalla presenza di disoccupati e sottoccupati in famiglia. La bassa intensità lavorativa è uno dei tre indicatori di povertà familiare per Eurostat13. L’emergere della precarietà e sottoccupazione, dovute ad alcune riforme del mercato del lavoro non adeguatamente bilanciate da forme di welfare dedicate alla popolazione attiva (workfare) ha nel tempo determinato una situazione di tendenziale fragilità economica anche nei lavoratori, spingendo ricercatori e istituzioni a dedicare attenzione particolare al fenomeno della in work poverty o dei working poor (lavoratori poveri). Questa crescente problematicità si mostra nella maggior parte del mondo avanzato con delle differenze dovute a squilibri nelle politiche di welfare e nell’implementazione delle politiche attive del lavoro che dovrebbero favorire l’ingresso dei disoccupati e delle persone in cerca di prima occupazione nel mondo del lavoro.

Per ovviare alla scarsa rappresentatività del fenomeno insita nelle definizioni operative della Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro, Eurostat e gli Istituti nazionali di statistica dei paesi membri hanno introdotto nel 2011 altri tre indicatori che segmentano il campione in maniera più significativa aggiungendo ai tre cluster (occupati, inoccupati e disoccupati) le “forze di lavoro potenziali” (inattivi attivabili) e i “sottoccupati part time”14.


6) Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro, informazioni sulla rilevazione https://www.istat.it/it/archivio/8263

7) https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2000:228:0018:0021:EN:PDF

8) Per un’analisi e critica dettagliata a questo approccio metodologico cfr. Viviano, Elena, “Un’analisi critica

delle definizioni di disoccupazione e partecipazione in Italia” Banca d'Italia, 2002

9) Jesus Ferreiro, Carmen Gómez “Labour Market Flexibility, Employment and Unemployment in Europe”

FMM Working Paper, Nr. 31. 2018 pag. 3-8

10) Un’interessante analisi di carattere socio-antropologico delle conseguenze della gig-economy è il saggio

Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere del filosofo Byung-Chul Han, che non perde l’occasione di gettare uno sguardo critico sull’utilizzo dei big data e sulla rinnovata fiducia nei prodotti della

statistica che considera frutto di un tipo di razionalità neo-illuminista funzionale al sistema di sfruttamento

della presente epoca

11) A.A.V.V., In-work poverty in Italy - EUROPEAN SOCIAL POLICY NETWORK (ESPN) 2018 in https://ec.europa.eu/social/home.jsp?langId=en, pag. 4.

12) Documento approvato il 08/11/2018; relatore: Fracassi. Il documento è disponibile nel sito www.cnel.it

13) https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-datasets/-/t2020_50&lang=en

14) Fonte: https://www.istat.it